le parole di bocca.

DYLAND EMPIRE

parabole e palindromie
Frammentazione del tempo, dell’identità, del nome e cognome, dell’età e del sesso, delle azioni, dei simboli e dei riferimenti per allontanare la quadratura circolare della definizione, della concentrica malattia umana da catalogo e consequenzialità, una liquefazione di scheletri, imbastiture stroncate.
Haynes scorazza in avanti e indietro furioso, centrifugando, aggiungendo, mistificando, traslando, imbrattando con pennellate, schizzi, gocce di caos, un inno all’arte in un inno alla vita.
Freak-cinema nella sua creazione e nella sua rappresentazione, ma freak come diverso sono solo parole vuote e limitanti, sono insulti imposti da una società che vuole demonizzare ciò che non conosce e riconosce, ciò che è senza filtri meccanizzanti, ciò che non è un prodotto usa e getta creato nella catena di montaggio della normalità, una società che vive deificando e distruggendo.
Bugiardi, nella tana della tarantola.


le verità nascoste
Haynes fagocita e si esibisce in un formalismo perfetto per affossare il formalismo narrativo e scaraventarlo al cielo, sul narcobaleno, per stuprare lo schema e celebrarne l’autopsia. Scarafaggi schiacciati. La morte dei confini. Barriere infilzate.


perchè non siamo in grado di accettare il caos?
Nietzsche diceva che bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi. Schiacciati dall’illusione della schematizzazione, dalla definizione di ciò che ci sta intorno, procediamo anelando sogni, ma i sogni sono per i sognatori e per chi dorme. Sveglia, uniamoci al coro del caos che risuona dalla prigionia delle convenzioni. Un urlo poetico, lava potente, esorcismo elettrico, eco struggente della significanza.


sogni schiantati
Sognare? Vivere? Soprattutto perdere. Perdere per vincere nell’attraverso, nell’oltre. E una volta perdenti contemplare la bellezza del passato che scorre dalla finestra sul postmondo fuori dal carro merci, nelle foto di ciò che è perduto separato dal destino, nella corsa di un cane, nel fumo di una sigaretta che dipinge l’aria, nel vomito del rifiuto sulla gamba del corpo vuoto, nella faccia imbastita dell’intervistatore aguzzino con i paraocchi della mediocrità.
Un manicaretto di vergogna soffocato nel velluto blu.


hai mai pregato?
Amicizie per caso e per necessità su un lembo di legno lercio, un tozzo di pane come atto di fede, condividere, conversare attraverso la musica, emanare musica, respirare musica mentre il paesaggio strimpella sulle rotaie del tempo e scheggia in un caleidoscopio di nulla e nell’assoluto del tutto. Illuminazioni. Stagioni all’inferno suggellate dal sommo veggente Rimbaud. Con umiltà abbandonarsi. Andarsene in Sì minore.
Anche questo è pregare.


monumenti errabondi
Allen Ginsberg, l’elettrolisi amniotica della coscienza, il balletto spudorato della libertà, caselle bruciate, la scimmia sulla schiena sta ancora ridendo. Pigia il tasto della macchina da scrivere. Pigia. Pigia. Ora!


menestrelli beat
Woody il Giona bambino, inghiottito dal pesce e risputato in un paese di confine, dimenticato e violentato da giochi di potere, un luogo di fiere libertà reclamate, fra giraffe, cocomeri e maschere e dove la nuova presa di coscienza dell’impossibilità di sottomettersi al padrone cementificatore risuona come una rivoluzione.

Jack rotolante, il folk-singer che alla globalizzazione della protesta risponde da good shepherd, ancora una volta fuori dal coro.

Robbie, l’invisibile ed impenetrabile. Uomo sul set, attore nella vita.

Jude, il manichino sfuggente, il maltrattatore di canoni, l’eccezione, un corpo in dissolvenza creato ed ucciso dall’arte.

Billy the Kid, l’esiliato mai domo.

Arthur Rimbaud, l’azzeramento della creazione è la più grande libertà la più grande sconfitta. Mai creare Niente.


fottere gli schemi
Cosa sono le peregrinazioni indagatrici nelle vite degli artisti? Le domande senza risposta, le risposte senza domande, le non domande, i suoni? Dolore, sonno, vita, morte, folk, rock, male, pop, bene, ieri, oggi, domani. Solo parole. Nient’altro, come “astronauta”. Come il linguaggio dei segni, segni sui corpi, corpo distaccato, androgino, oggetto volante, like a ziggy, stella danzante, corpo in fiamme.
Arte, libertà, ancora e solo parole ammutolite. Ma Haynes ammanetta il cervello e colpisce il cuore, il sangue, lo stomaco, le viscere, materia mobile in sinfonia, connessa con lo schermo, poltrona, buio, visione, immagine, musica. Tutt’uno. Tutti insieme.


dio salvi i segreti
L’arte divora vite, risucchia liquidi corporei e vomita bellissime illusioni che vivono nell’attimo stesso in cui sono generate per poi evaporare, un altro capitolo profetico della storia del cinema, ma definire il confine fra cinema e non cinema è riduttivo, ho sempre pensato che si stesse parlando della celebrazione della vita.


io non sono qui
L’anti-biopic rimandante, ma di chi? Nostro o di Dylan? O di Jude? O di Cate? O dell’artista totale? O dell’uomo? O dell’agricoltore poeta? O di te? O del cantastorie randagio?
Quanto siamo schiacciati nelle vite che vediamo scorrere ed impressionare lo schermo? Quanto c’è di quelle vite nella nostra? Quanto ci avvicinano o ci distanziano da noi stessi? Quali sono i confini fra reale ed immaginato? Fra concreto ed idealizzato? Quanto vivo la mia vita e quanto la vivo nei film, sul rettangolo ora buio, ora multicolore? Quanto ne assaporo i momenti senza simularla nella pellicola? Metavita o metacinema? O metapsicosi? Quanto sono quelle astrazioni e quanto me stesso? Quanto c’è di me nelle mie lacrime?
Per la maggior parte del tempo noi non sappiamo chi siamo, per la maggior parte del tempo io non so chi sono, mentre taglio la cordicella che mi lega al suolo e come una pietra rotolante raggiungo finalmente il primo posto che non conosce il mio nome, un cielo in bianco e nero, ancora una volta, lontano dal paradiso.


grazie a : shineonthepiper



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