[traduzione di Annibal Caro]
Arde Dido infelice, e furïosa
per tutta la città s'aggira e smania:
qual ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso arcier fugge lo strale
che l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo porta al fianco infisso. Or a diporto
va con Enea per la città, mostrando
le fabbriche, i disegni e le ricchezze
del suo novo reame; or disïosa
di scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spïar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor che notte oscura
in disparte gli tragge, e che le stelle
sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente, in solitudine ridotta,
ritirata da gli altri, è sol con lui
che le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio, il pargoletto figlio
per sembianza del padre in grembo accolto,
tenta, se cosí può, l'ardente amore
o spegnere, o scemare, o fargli inganno.
Le torri, i templi, ogn'edificio intanto
cessa di sormontar; cessa da l'arme
la gioventú. Le porte, il porto, il molo
non sorgon piú; dismesse ed interrotte
pendon l'opere tutte e la gran macchina
che fea dianzi ira a' monti e scorno al cielo.
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